[Bruno Giorgini per scienceground.it]
L’estinzione alla fine del periodo geologico Permiano, che corre da circa 300 a 250 milioni di anni fa, fu innescata con tutta probabilità da un cambiamento climatico. L’evento durò tra i cento e i duecentomila anni, alla fine dei quali il 90% delle specie viventi sul pianeta era scomparso, annichilito. Ora cosa abbia portato a una strage di così grandi dimensioni non è del tutto chiaro. Quasi certamente ha contribuito una serie di concause, tra cui l’azione dei batteri. Più precisamente il riscaldamento degli oceani avrebbe favorito la crescita di batteri solforiduttori che producono idrogeno solforato, altamente velenoso per la maggior parte delle forme di vita. Così questi micidiali batteri proliferarono nelle acque, distruggendo quasi tutta la fauna marina, poi filtrarono nell’atmosfera e fu la volta dei viventi che volavano, dagli insetti agli uccelli: forse la prima grande pandemia batterica della storia evolutiva della terra, certamente la prima che noi umani abbiamo ricostruito. Oggi combattiamo le infezioni batteriche con gli antibiotici, su cui il discorso diventa delicato perchè i batteri sviluppano capacità di resistenza ai farmaci, e l’uso eccessivo di antibiotici può produrre più guai di quanti vorrebbe risolverne.
Adesso andiamo in California negli anni ’80 del secolo scorso a trovare i 22 condor – i più grandi volatili dell’America del Nord – rimasti, a rischio estinzione. Tra le numerose azioni volte a proteggerli dai molteplici pericoli che corrono, c’è anche la somministrazione di un vaccino contro il virus del Nilo occidentale, una malattia che sarebbe per loro mortale. Un vaccino non esportabile agli umani, per cui ancora noi siamo scoperti di fronte a una eventuale infezione virale. Come oggi siamo indifesi di fronte all’influenza dovuta al coronavirus. Nome in codice Covid – 19 (sincopato da coronavirus disease 2019).
In qualche modo noi umani, costruendo un ambiente artificiale adatto alla nostra sopravvivenza e sviluppo – per esempio le città – ci siamo in parte liberati dai vincoli dell’evoluzione naturale strettamente intesa, epperò le malattie, soprattutto le epidemie virali e/o batteriche, ci dicono la nostra dipendenza dai sistemi biologici e geologici del pianeta. In realtà con un intreccio di azioni e reazioni tra scienza, natura e tecnologia ormai inestricabile e forse giunto al limite delle sue possibilità, se non degenerato dal buono al cattivo, come quando il vino trasmuta in aceto.
Se i batteri sono microrganismi viventi con un DNA, generalmente piuttosto semplice, che ne assicura la riproduzione, dotati tra l’altro di una motilità autonoma, i virus sono entità microscopiche sul crinale, perchè non hanno una loro mobilità; viaggiano prendendo il taxi, cioè scegliendo un ospite che li trasporta a passeggio per il mondo. I virus non sono pietre e non sono cellule. Sono qualcosaltro, a cavallo dei due stati fondamentali della materia: il vivente e l’inerte. Questo li rende affascinanti, e pericolosi.
I batteri che ho in pancia e dintorni sono all’incirca centomila miliardi – i virus sono dieci volte tanti – pesano alcuni chli, interagendo col cervello tanto che qualcuno ne parla come di un organo pensante, una sorta di secondo cervello, che agisce in modo piuttosto misterioso. Osserviamo il fenomeno ma non ne abbiamo alcuna spiegazione ragionevolmente completa. Di più batteri si trovano anche direttamente nel cervello, nella substantia nigra, nell’ippocampo, nella corteccia prefrontale. A tutt’oggi non si sa da dove arrivino e come, essendo il cervello un sistema fortemente protetto da intrusioni esterne. Insomma esisterebbe una popolazione di microrganismi che “colonizza” il cervello (microbiota cerebrale) con conseguente microbioma (la totalità del patrimonio genetico posseduto dal microbiota). Inoltre i batteri sono fondamentali nel sistema immunitario preposto a difenderci dagli attacchi di “nemici”, i virus, batteri e altri microrganismi patogeni, vettori di possibili malattie.
Per dare un numero complessivo, sulla totalità delle cellule costituenti il nostro sistema biologico, soltanto il 43% è “umano”, mentre il 57% è composto da batteri di vario tipo, della cui funzione non sappiamo molto (i virus miliardi di miliardi non entrano nel conto, poichè non si tratta di cellule con DNA).
Questi numeri dicono che una strategia genocidaria di sterminio totale dei batteri, sarebbe suicida, equivarrebbe in senso letterale al suicidio del nostro Soma.
La via dell’armonia, direi di amicizia, coi batteri che ci abitano è in linea di principio la pratica più salutare. E in genere i nostri minuscoli compagni di viaggio se ne stanno quiescenti e pacifici. Però può accadere che per motivi endogeni e/o esogeni avvenga una infezione batterica insorgendo la malattia individuale. Scatta a questo punto in genere la somministrazione di farmaci, quasi sempre antibiotici. Che furono una grande scoperta se non fosse che il troppo storpia, arrivando al bestiame messo all’ingrasso e alla crescita a base di antibiotici. Una sciagura.
I batteri non sono stupidi e come ogni organismo attaccato da entità ostili, hanno sviluppato sistemi di autodifesa, via via perfezionati quasi di pari passo con lo sviluppo dei farmaci antibiotici. Così accade che 8 batteri siano diventati organismi multiresistenti ai farmaci e quindi provocano la morte, 33.000 decessi ogni anno in Europa, di cui oltre 10.000 in Italia, per infezioni batteriche nel 75% dei casi contratte in ospedale – da noi l’80%, la causa essendo per l’appunto l’eccesso di uso degli antibiotici in specie utilizzati per l’allevamento del bestiame, sebbene dal 2006 sarebbe vietato almeno nei paesi della UE. Misura sacrosanta ma una goccia nel mare del mondo globalizzato.
Quando i batteri si scatenano a miliardi miliardi l’infezione individuale diventa epidemia. Per esempio la peste che ha flagellato l’Europa a più riprese e non in tempi lontanissimi; chi non ricorda “Morte a Venezia” di Thomas Mann o “La Peste” di Albert Camus. In genere si cerca di contenere l’epidemia con la quarantena, quando un insieme di umani abitanti una città o un’intera regione o come oggi in Cina l’area di di Wuhan con 50/60 milioni di persone, viene rinchiuso senza poterne uscire prima del tempo necessario per la remissione della malattia. All’interno della zona di qurantena si attivano poi spesso quarantene parziali, da appartamento a appartamento, tra condominii, tra quartieri eccetera. Insomma una separazione alla fine tra individuo e individuo, di due metri tra l’uno e l’altro, questa essendo la distanza di sicurezza, il range spaziale di diffusione del virus almeno per l’attuale epidemia, questa però virale (coronavirus).
Che molti milioni di persone possano essere tenute prigioniere in una zona delimitata è di per sé spaventoso, e probabilmente assai difficile a meno di non costruire un enorme campo di concentramento, nel nome della salute pubblica, per carità, e terrorizzando col timore del contagio le persone a vario titolo coinvolte. È difficile dire se stia funzionando in Cina, un paese a dominante autoritaria dove dovrebbe essere più facile tenere in riga i cittadini. A colpo d’occhio non completamente perché il morbo si sparge fino in Europa, Italia compresa. I cinesi sono tanti, viaggiano molto e il governo ha aspettato una decina di giorni prima di dare l’allarme. Inoltre, supportato dall’OMS – la Cina è un gigante che è meglio non irritare – per giorni dicendo che era un affare interno, cosa ridicola come è adesso evidente.
La tragedia politica sociale sanitaria è testimoniata in modo esemplare dalla sorte di Li Wenliang, il giovane medico che ha previsto la gravità del morbo e dell’epidemia, dandone notizia sulla rete, per questo messo brutalmente all’indice e a tacere dal regime, quindi morto avendo contratto la malattia. Probabilmente perchè si era preso cura dei pazienti prima di se stesso.
Invece il Presidente Xi vivo e vegeto si presenta in pubblico la mascherina, per far dimenticare il colpevole ritardo di ieri – quante persone inconsapevoli ha infettato il morbo nei dieci giorni di silenzio – ma potrebbero essere di più, alcuni dicono fine dicembre 2019 – e occultamento della epidemia in corso d’opera? Centinaia? Migliaia? Decine di migliaia? Quante? Nel contempo l’immagine del Presidente vorrebbe significare l’impegno totale di oggi. Si vorrebbe ottimista Xi, ma le notizie che trapelano parlano di una situazione drammatica.
Scrive Badiucao, disegnatore satirico, originario di Shanghai, che oggi vive in Australia: “C’è stato un suicidio ieri. Si dice che era un paziente diagnosticato non ammesso in ospedale perchè non c’era posto. Aveva paura di contagiare sua moglie e suo figlio se fosse tornato a casa (..) Chi vive nelle città in quarantena, vive nella paura. Non sa cosa sta succedendo, né se si sente al sicuro. (..) Non è solo il virus che spaventa, è come se tutto potesse scomparire da un momento all’altro senza preavviso. (..) Non ci sono abbastanza test diagnostici, dottori e posti letto tutto ciò che sappiamo si basa su dati incompleti. (..) La discriminazione (verso i cittadini cinesi ndr) non coinvolge solo il mondo occidentale. Ad Hong Kong e Taiwan si comportano nello stesso modo (..) Confondono il virus con gli esseri umani e i semplici cittadini con il loro governo. (..) Le persone di Wuhan sono messe all’indice senza ragione.”
Quando la “peste” sopraggiunge, la città, la polis e la civitas, rattrappisce, rattrappiscono. Dall’esterno viene circondata, messa in quarantena, talchè chiunque cerchi di uscire ne viene con la forza impedito, e lo stesso accade a chi cerchi di entrare. La città diventa un sistema chiuso impedito dall’esterno all’interno, e viceversa. Una sorta di carcere a cielo aperto, luogo di reclusione che accomuna contaminati e contaminabili, quiescenti e resilienti, morti, moribondi, e viventi. Si tratta di una condizione innaturale perchè la città è per sua intima costituzione un sistema aperto. In questo senso la peste distrugge la città ancora prima di avere ucciso i suoi abitanti.
Questa chiusura, insieme alla paura – se non panico – per il contagio, disgregano le relazioni sociali di prossimità nonchè di buon vicinato fin dentro i rapporti amorosi: quando l’amato/a cade ammalato, l’amante viene subito allontanato/a dalle autorità sanitarie, che con quelle di polizia, rimangono le uniche in campo, mentre l’appestato/a viene rinchiuso con gli altri/e che soffrono la stessa condizione. Inoltre i luoghi abituali di frequentazione sociale, caffè, ristoranti, sale da ballo, giardini pubblici, strade del passeggio, scuole, negozi, spiagge se siamo sul mare, insomma l’intero tessuto degli spazi pubblici d’incontro, vengono disertati, o piuttosto: desertificati. La città di Wuhan è spettrale.
L’epidemia inoltre modifica il tempo. La persona vive tra un presente che non vorrebbe, un futuro impredicibile. Nessuno sa quanto durerà il flagello del morbo. Ogni modello è parziale e soggetto a errori statistici che hanno un ordine di grandezza pari alle dimensioni del futuro che si intenderebbe prevedere. Rimane il passato. Cui ci si abbarbica disperatamente, perchè l’homo vive nel tempo. Se il tempo viene a mancare muore. Si sente morto. Si lascia morire.
La peste è nel corso dei secoli, metafora di una annichilazione della civiltà urbana cosmopolita come un incubo adagiata nel profondo dell’inconscio collettivo. Un incubo dormiente ma con sonno leggero, che un piccolo niente, può risvegliare. Un virus sconosciuto proveniente da chissà dove, gli spazi interstellari tanto quanto un qualche laboratorio di apprendisti stregoni delle biotecnologie, o dall’animale di casa, o un virus conosciuto che credevamo debellato e invece riprende vigore fino all’esplosione, o qualcos’altro ancora ben oltre la nostra immaginazione. D’altra parte la battaglia tra virus e antivirus già infuria nella città virtuale globale, internet e il web.
Il problema delle epidemie e/o pandemie diventa cruciale in un mondo caratterizzato da una grande mobilità globale con un interscambio di popolazioni e migrazioni di ampiezza intercontinentale, rete globale di mobilità di cui le città sono i nodi e, per quanto attiene la trasmissione di malattie epidemiche, anche i punti critici trattandosi di luoghi a alta densità di persone potenzialmente contagiabili, e in genere poco controllabili. Il che implica una grande responsabilità sociale, e direi anche politica per i ricercatori che in un modo o nell’altro devono uscire dalle “torri d’avorio” dei loro laboratori per misurarsi con l’intera società. I suoi sogni tanto quanto o suoi incubi, i suo bisogni tanto quanto i suoi desideri. Per dirla in una formula: sarà questione, è già questione, di scienza e democrazia.
Last but not least, ultimo ma non ultimo alcune notazioni.
Se facciamo una lista delle malattie/epidemie per esempio dal 1967, ne troviamo una congerie, e di più (oltre dieci) (fonte Spillover – David Quammen- 2012, ed. Italiana Adelphi -2014). Ma non siamo di fronte a una successione di calamità naturali. Queste malattie che s’avvitano l’una sull’altra in una specie di terrificante staffetta se le guardi tutte insieme, sono conseguenze delle nostre azioni le quali spesso comportano la distruzione se non disintegrazione di molti ecosistemi, una vera e propria collezione di cataclismi devastanti la natura. Si pensi alla nascita e crescita di megalopoli con enormi slums abitati da milioni di persone e animali, ammassati senza servizi igienici, tantomeno servizi sanitari. In questi ambienti nasce una folla di patogeni, virus, batteri, protisti, un nugolo di parassiti, eccetera per la maggior parte sconosciuti. Insomma è questione di ecologia.
Soltanto una evoluzione della nostra civiltà nel senso di una ecologia integrale può mettere l’umanità al riparo da un possibile olocausto che viaggia tra il cambiamento climatico e l’insorgenza di epidemie sempre più furiose nonchè distruttive. Un patto di equità tra l’uomo e la natura, in luogo del dominio sulla natura messo in opera dal sapiens dall’inizio della sua storia a oggi.